mercoledì 14 gennaio 2009

LOS CAMPESINOS! Hold on now, youngster…


Sono in sette, vengono da Cardiff e mostrano una spiccata propensione all’indie-caos organizzato. Musica divertente e contagiosa che farà ballare anche la vostra testa. Già segnalatisi con un EP, compiono il salto sulla lunga distanza senza affanni e slanci rinnovati. La produzione, affidata al Broken Social Scene Dave Newfeld, esalta le sghembe architetture del combo, che sin dall’iniziale e già famosa “Death to Los Campesinos!” appare una versione debitamente aggiornata delle famigerate Teste Pensanti. Ritmi vorticosi e continui botta e risposta tra i vocalist maschile e femminile fanno di questo “Hold on now, youngster…” uno dei dischi più spensierati e divertenti di inizio anno

NICK CAVE & THE BAD SEEDS - Dig, Lazarus, Dig!!!


«Signori e signore, siamo qui oggi per evocare qualche tipo di spirito» - dice Nick Cave con diadema sul capo e baffi nell’esilarante video promozionale “Lest I shiver” che si trova oltre che sul suo sito (www.nickcaveandthebadseeds. com) anche su You Tube - «Adesso mi manderò in trance e ho bisogno che voi mi leghiate a questa sedia» confida poi agli scettici Bad Seeds seduti attorno alla tavola rotonda. Dopo qualche secondo le luci vengono abbassate e quando si riaccendono Cave si è slegato da solo come un novello Houdini. Proprio il grande mago, nato Ehrich Weisz a Budapest e vissuto in USA tra il 1880 e il 1926, è una delle chiavi per aprire l’ingresso del quattordicesimo album in studio del cantautore australiano che arriva a quasi quattro anni dal precedente lavoro con i Bad Seeds, “Abattoir blues/ The Lyre of Orpheus”, e solo a un anno dal progetto Grinderman: «Houdini ha speso la sua intera vita nel cercare di spiazzare gli spiritualisti pronti a celebrare il lutto - spiega Cave - credeva non ci fosse nulla dopo la morte e per questo divenne il secondo più grande artista dell’evasione, della storia. Il primo ovviamente è stato Lazzaro, un personaggio che mi ha sempre affascinato e traumatizzato fin da quando ero bambino e andavo in chiesa. Nella canzone che dà il titolo al disco ho messo Lazzaro e Houdini assieme nella New York degli anni Settanta». Undici canzoni per cinquantaquattro minuti di durata, testi di Cave e musica in tre casi scritta con Warren Ellis e in altri tre anche con Martyn Casey e Jim Sclavunos, tra citazioni disparate (dalla moglie Susan allo scrittore americano John Berryman) e una formazione di sette elementi con in fase di produzione ancora Nick Launay per la terza volta consecutiva dopo che per vent’anni i due non si erano più frequentati (Launay aveva già prodotto due dischi dei Birthday Party, “Release the bats” e “Junkyard”, tra il 1982 e il 1983). E a livello sonoro il lavoro fatto è eccellente per strumentazione e arrangiamento, capace di costruire tutt’attorno alla voce di Cave una sorta di camera sonora, un contenitore stratificato e mai eccessivamente pesante che trova il suo apice in “Hold on to yourself” con Mick Harvey all’organo, e soprattutto nel pezzo di chiusura, “More news from nowhere”, otto minuti di equilibrio con un bordone di chitarra elettrica tenuto sullo sfondo e sopra basso, batteria e chitarra a cui si aggiugono sul ritornello seconde voci, hand-clap e un’altra linea di chitarra. E poi ci sono le parole: «Spesso le persone dicono che hanno timore del cambiamento, beh io temo di più invece che le cose rimangano sempre le stesse» canta l’australiano in “Jesus of the moon” poco prima che un insolito flauto entri a sottolineare la melodia del brano, uno dei migliori dell’intero disco. Il primo singolo omonimo, una sorta di blues isterico recitato sopra un riff di chitarra ripetuto e alternato da un controcanto, vede Cave fare invece il resoconto di un personaggio (Lazzaro? Houdini?) che viaggia tra New York e San Francisco, mentre in altri brani come “We call upon the author” interroga direttamente con Dio. Non aspettatevi però canzoni dolenti, non cercate “Into my arms” o “The weeping song”, pezzi di cuore o anime straziate, perché una volta per tutte e per sempre, Nick Cave si è messo al riparo dall’equazione che vuole la vita dell’artista riflessa nelle sue creazioni: è dal 2003 e da “Nocturama” (“No more shall we part” ancora era pieno di ferite) che il cantante ormai riesce a lavorare in maniera distaccata dalla propria musica, riuscendo a comporre in maniera eccelsa senza necessariamente soffrire come ha fatto per molto tempo, dai Birthday Party al periodo di dipendenza dall’eroina fino al capitolo finale di una fase della sua vita che è “The Boatman’s call”, ad oggi ancora il suo insuperato capolavoro. Oggi Nicholas Edward Cave è un uomo di cinquant’anni (compiuti<

Tony Manero


Raul Peralta è un uomo di cinquant’anni che, alla fine degli anni Settanta in piena dittatura di Pinochet, ha un unico scopo nella vita: ballare come Tony Manero, il personaggio impersonato da John Travolta ne La Febbre del Sabato Sera. Si reca continuamente a rivedere il film in una sala di Santiago, ripetendo le battute e gli atteggiamenti del suo idolo. Senza un vero mestiere, Raul frequenta una piccola comunità di aspiranti artisti, su cui gravitano la sua amante Cony, il giovane Goyo, la procace figlia di Cony, Paulita, e la più matura Wilma, proprietaria della struttura in cui il gruppetto prova uno spettacolo basato sul film. Dopo varie vicende, anche drammatiche, Raul parteciperà ad uno show televisivo come aspirante sosia di Tony Manero. L’esito non sarà proprio quello sperato.È un film durissimo questo Tony Manero, passato a Cannes e in concorso al Torino Film Festival, nomination per l’Oscar. La regia non nasconde nulla, il regista Larraìn è davvero impietoso nei confronti dei personaggi. E soprattutto verso Raul (interpretato da un gigantesco Alfredo Castro), figura di disadattato ai margini della società e ai bordi della follia. È uno sconfitto Raul, ma non è certo un buono, e lo dimostra non appena si trova a soccorrere un’anziana signora aggredita per strada. A casa di lei, la deruba del televisore a colori, che quest’ultima possiede grazie ai favori del regime. Nonostante questo, Raul sembra però privo di una vera coscienza politica; da monomaniaco aggredisce e picchia anche il proiezionista del cinema, che ha il solo torto di aver smontato il suo film preferito, sostituendolo col mediocre Grease. La ferocia del regime non cela infatti la mediocrità della gente, infatuata degli occhi azzurri di Pinochet, istupidita dai giochi e dai varietà televisivi, indotta a credere in infimi ideali. È straordinario come la regia rimanga fissa sul personaggio di Raul e riesca altrettanto bene a rendere la miseria degli altri protagonisti, da Cony, preoccupata di perdere il suo amante (ormai tanto calato nella sua “febbre” per Manero da non desiderarla nemmeno più: e la sequenza – hard – in cui lei si lamenta della sua impotenza amorosa è quantomeno indicativa) a Paulita, che provoca sessualmente il protagonista per poi finire a masturbarsi quando lo stesso tenta di prenderla con foga. Larraìn procede con mano fermissima, accumula situazioni e dettagli scabrosi, dipinge un quadro cupissimo, sorprende fin dal primo scoppio di collera del suo protagonista, narciso invidioso capace di arrivare a defecare sul vestito bianco con cui Goyo vorrebbe partecipare al concorso per eleggere il sosia di Travolta. Travolge e coinvolge un intero popolo e un intero paese, la denuncia del regista, circostanziata senza essere esplicitamente politica; ma ha anche l’abilità di chiudere con un’ellissi quando – lo spettatore lo intuisce – Raul si siede in fondo all’autobus che lo riporta a casa pronto a colpire chi gli ha negato la gioia d’essere tale e quale il suo idolo (in un programma volgare che ricorda molto la nostra Corrida). Fa inorridire Tony Manero, e fa anche vergognare e indignare, non appena si pensi a quanto sia invero realistico e capace di mettere a nudo la sconvolgente stupidità dei tempi e la marcescenza delle relazioni umane, nascosta da ideali buonisti e da visioni ottimiste della società. Una discesa agli inferi di profonda attualità (benché la vicenda sia ambientata giusto trent’anni fa, nel 1978), che farà meditare anche gli spettatori italiani. Sperando che la censura non si accanisca sul film, forse troppo lucido per essere accettato facilmente nel nostro pavido paese.

Yes man


Carl Allen è un impiegato divorziato orgogliosamente chiuso nella sua solitudine e insensibile alle richieste altrui. I clienti gli chiedono un prestito e lui lo nega, gli amici gli chiedono compagnia e lui si tira indietro, cercando di farsi bastare un dvd sul divano. Si protegge dai colpi che la vita gli ha dimostrato di saper sferrare, ma quanto altro si preclude così facendo? L'incontro con un ex collega lo convince a partecipare ad un seminario di “positività”, in cui il guru di turno lo esorta a rivoluzionare la sua vita rispondendo di sì ad ogni richiesta. Improvvisamente, si ritrova ad apprendere il coreano, a prodigarsi per un barbone, a presenziare alle feste a tema del capoufficio e ad accettare il passaggio in scooter di una sconosciuta di nome Allison. Carl dice sì all'amore per costrizione, in attesa di dire no alla costrizione in nome dell'amore.Da qualche tempo, Peyton Reed tenta un rinnovamento della commedia, ibridandola con ingredienti di segno opposto, ma in Abbasso l'amore la strategia spegneva il romanticismo e il film soffocava, stretto nella sua stessa messa in scena, mentre in Ti odio, ti lascio, ti… avveniva l'esatto contrario e il killer assumeva il volto di un naturalismo fatalmente fuori luogo. Con Yes man, Reed fa centro, affidandosi ad un meccanismo sfornacomicità , "l'obbligo, per il protagonista, di accettare l'inaccettabile" che garantisce la risata e mantiene sottotraccia tutto l'amaro che il regista era andato cercando per strade solo apparentemente più consone.Questa volta, dunque, non manca la formula ma non viene meno il cinema, regno del possibile per eccellenza, della creazione di mondi a partire dal nulla, o da un sì. Nonostante la convention capitanata da Terence Stamp costituisca un innegabile punto debole nell'impalcatura motivazionale, talmente “di servizio” che di più non si può, la grandezza di Jim Carrey permette al suo personaggio di liberarsi in un attimo dalle maglie di un percorso troppo scritto: gli basta una smorfia, un sorriso tirato dei suoi, che sembrano voler dire “è tutta una presa in giro e io posso prendervi in giro meglio di chiunque altro” per far reagire commedia scenica e tragedia umana in modo esplosivo.Nell'impasto di diverse tonalità del comico c'è, poi, il traguardo più difficile e più interessante: lo slapstick facciale del protagonista -che, invecchiato, è meravigliosamente “più scemo” e meno stupido- si scontra vantaggiosamente col ridicolo di Rhys Darby nel ruolo di Norm (nomen omen) e l'eccentrica tenerezza di Allison/Zooey Deschanel e dei testi della sua band, le Munchausen By Proxy. La scena all'Hollywood Bowl, invece, basta a colmare le lacune romantiche di un'intera filmografia.

Titolo secondo

Mi sembra che con la foto a destra è più carino
un due tre
ho cambiato carattere
non si vede? questo è Lucida
Questo è Verdana
poi c'e'
Trebuchet

Titolo primo


Sto scrivendo nello spazio sotto titolo primo

inserisco una foto


bella la foto, eh?

qui ho cambiato colore al testo

qui ho scritto in largest

questo e' smallest e nella finestra sotto ho scritto l'etichetta Prova

ho consentito ai lettori di aggiungere un commento

questo testo l'ho scritto
premendo maiuscolo invio

bene si possono anche aggiungere link
per esempio alla trama del film
Yes Man

chiudo qui la prima prova